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C’è una volta _ Testi di Francesco Angelucci e Isabella Vitale

 

Francesco Angelucci: C’è una volta. Non ricordo perché questo titolo. E mi sembra quello di una storia che però non è mai iniziata oppure che sta sempre sul punto di ma poi non parte.

 

Isabella Vitale: Il titolo è una riflessione nata osservando il mare, le nuvole, le foglie mosse dal vento: un forte richiamo al presente ma che rimanda al passato. Non credi anche tu che sia in coerenza con la produzione artistica di Luca Grechi? Osservare e ascoltare con nuovi occhi e nuove orecchie ciò che si è già osservato e ascoltato. Nella sua ricerca artistica, perennemente in movimento ciò è inevitabile. E il risultato è "qui e ora".

 

F.A. Il tempo in Grechi, come in molti pittori, è una dimensione fondamentale. Credo sia il risultato di una pratica che costringe all’attesa. Fermarsi davanti alla tela appena dipinta, guardarla e riguardarla mentre asciuga il colore. E poi ancora: un altro segno, un nuovo sguardo, un’altra attesa che manco l’eterno ritorno. Ex pittori, per così dire, pensano sia una disciplina distruttiva. Mi chiedi se sono d’accordo sul richiamo al presente che rimanda al passato. In parte. Penso che in Grechi nessun passato è veramente andato e nessun presente è ora. Ed è questa la sua profonda coerenza. È più diciamo un vivere galleggiando su un lago. Non mi sembra una prospettiva lineare è più tipo una costellazione nella quale stelle di epoche e distanze diverse condividono una stessa linea su uno stesso piano. Uno spiattellamento generale. Non so se mi sono spiegato. Ma forse è quello che intendevi tu per vedere con nuovi occhi quello che si è già visto.

 

I.V. Credo che guardare e osservare davvero ciò che ci circonda equivale a meditare sul mondo e su tutto ciò che esso include, nel bene e nel male. Ed è questo a mio avviso il compito dell’arte di Grechi e nell’arte in generale: mostrare allo stesso modo il “bello” e il “brutto” che ci circonda, rispettarli entrambi e cercare di darne un’angolazione diversa attraverso l’arte affinché se ne solleciti un cambiamento di chi guarda e, suo malgrado, di chi è guardato.

 

F.A. Sarebbe bello fosse così. Penso invece che non ci siano, in Grechi come in altri, un bene e un male, un bello e un brutto. La vedo più come infinita sfumatura così lunga fra due concetti contrastanti che ci siamo dimenticati pure dove siamo partiti e dove vogliamo arrivare. E in questo navigare a vista se Grechi dà un’idea di stabilità, e mio dio se la dà, è solo perché crede nelle stelle. E quel basamento tutto storto contro ogni regola geometrica di perpendicolarità è qui a dimostrarlo, insomma c’è ed è in piedi ecco, ma sembra che si regga con una preghiera appunto. Se per chiunque è a un passo dal cadere, Grechi sa che non accadrà e tanto basta per non farlo crollare.

 

I.V. Le opere di Grechi cambiano sotto i nostri sguardi e le forme che esse evocano portano in sé sia i ricordi dell’artista sia del suo fruitore, secondo l’antico concetto di “empatia” o “simpatica simbolica” (einfühlung) elaborata nel 1872 da Robert Vischer. Ma il titolo “c’è una volta” vuole appunto sottolineare l’imprescindibile legame con il presente, hic et nunc “usato spesso per indicare che una cosa non ammette proroghe nella sua attuazione”. L’arte non può aspettare, ma l’artista deve saper aspettare. Ne nasce una sorta di compromesso, un patto tra arte e artista, che si instaura e si rinnova di continuo attraverso un tacito accordo. Un “accordo silenzioso” che sfocia nell' “armonia” del pensiero creativo.

 

F.A. Non so se l’ho capita veramente questa ma è bello quando dici l’arte non può aspettare ma l’artista deve saperlo fare. Mi piace perché introduci una dimensione storica nella quale si inserisce tutta l’arte contemporanea, dico proprio quella di oggi. Sembra sempre che uno fa l’artista così, per sport e sbuca fuori dal nulla, invece soprattutto in Grechi c’è una storia secolare dietro ogni tela. Gli occhi incrociati sulle pagine dei Maestri del colore a studiare le pennellate di Rubens, le velature dei fiamminghi e quei disegni così secchi da essere violenti del nostro rinascimento, queste sono le fondamenta della sua cultura visiva e nei lavori si ritrovano tutte. Per dire, prendi un suo disegno, guardalo bene. Lì dentro c’è tutto, pare quasi abbia spostato il vuoto intorno alla matita più che disegnare sul vuoto della pagina. Sembrano tanto i fogli da spolvero per un affresco di Masaccio quanto i tratti di Giacometti quando metteva mano alla matita. C’è talmente tanta roba lì dentro che è la chiave di volta per capire tutto il suo lavoro. È tutto lì, spesso in pochi segni che sono il riassunto di una violenta pratica dedicata alla sintesi del reale, alla trasparenza di una visione che lascia sulla carta solo il sangue necessario mentre cura il resto.

 

I.V. Le opere in mostra sono a mio avviso una sorta di sintesi antologica del lavoro dell’artista: per l’utilizzo dei medium che da anni sperimenta e che qui danno luogo ai suoi disegni in cui la linea e il chiaroscuro restano una costante e, come dici anche tu, i suoi segni sono talmente una sintesi da darci l’impressione che il tratto della grafite si sia materializzato come un filo che poi ha inglobato lo spazio bianco del foglio, dando luogo a un disegno. O ancora i suoi quadri ad olio che sembrano acquarellati, alle sue installazioni monadiche e ai suoi “oggetti”, sia naturali, sia artificiali, il cui elemento di supporto diventa parte integrante dell’opera stessa, un “unicum”. Il mondo vegetale è oggetto della recente ricerca di Grechi: piante e fiori sono dipinti, disegnati o intagliati nel legno, come le foglie monocromatiche, installate al piano inferiore della galleria, di cui l’artista ha preventivamente disegnato attraverso l’intaglio la loro silhouettes e che per una mia personale predilezione, mi rimandano inevitabilmente alle sculture di carta di Matisse.

 

F.A. Sì, è vero, c’è anche molto Matisse in effetti. È vero anche che la mostra è un’antologia del suo lavoro anche se forse antologica non è la parola giusta. Cioè a conti fatti ci sono tutti i generi di supporti e tecniche utilizzate da Grechi ma anche come dicevi tu c’è solo una possibilità, un esempio, diciamo, per ogni genere. E sembra quasi che tutto lo sforzo si sia concentrato nel fare in modo che i pezzi in mostra non dialogassero fra loro. E proprio questo contrasto isola e risalta ogni lavoro. Tutto questo a un primo sguardo però. Perché a pensarci bene la personale è pensata esattamente come sono pensati i disegni di Grechi. Cioè senza indecisioni, ragionando sulle assenze più che sulle presenze. Un modo di agire che libera il vuoto e definisce un senso di secchezza che è anche purezza classica. Solo così tutti i lavori in mostra si uniscono per costruire un panorama che per quanto eterogeneo possa essere rimane quello di un artista che crede nelle stelle.

 

I.V. Mi vengono inoltre in mente “gli oggetti di Matisse” che l’artista francese collezionava con estremo rigore e passione e dai quali traeva ispirazione. Così Grechi trae ispirazione dai suoi oggetti “lasciati a decantare” a volte per anni nel suo studio: è il caso della radice di una pianta brasiliana qui esposta (che Grechi colse ben 15 anni or sono, durante il suo lungo soggiorno in America Latina) e riportata in vita, o meglio a “nuova vita”, accanto ad un oggetto, manufatto dell’artista, che attraverso la sua forma e il suo colore, evoca artificialmente il cielo e contrasta la terrenità della radice, diventando appunto un unicum. Le opere di Grechi ci inducono ad un dialogo infinito da cui scaturisce un paradosso: l’effimero resta, ma “c’è una volta”.

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